Menez: “Senza calcio forse sarei finito in galera. Ancora 7-8 anni di carriera, poi la panzetta. Mi sento un vino, come Ibra. A Roma…”

Un calcio agli anni difficili, il calcio come medicina per essere migliori. Non è il momento dei gol, del Milan, ma dell’essere Jeremy Menez, messa a nudo in un’intervista concessa stamane a La Gazzetta dello Sport.

Il Menez di oggi, le peripezie di ieri: “Forse, e sottolineo il forse, se non avessi avuto il calcio sarei finito in galera. Del resto, ci sono finiti un sacco di miei amici: furti, droga, quelle cose lì, che ci caschi se sei giovane, vorresti tutto ma i soldi sono pochi. Ho continuato a sentirli anche quando erano dentro e ogni volta era come rendersi conto di quanto sottile sia il filo che divide una vita felice da una vita buttata via, o comunque rovinata. Dal quartiere me ne sono andato a Sochaux al momento giusto, a 13 anni, l’età in cui puoi iniziare a fare le stupidaggini più grosse. E a 16 anni sono rimasto lì e non sono andato al Manchester United, anche se mi voleva Ferguson: pensavo non fosse il momento giusto, non ero pronto: non dico che sarebbe stata una cattiva strada, ma sentivo di essere troppo giovane per un salto così. Magari avrei fatto una carriera anche migliore, che ne so: so che non mi sono mai pentito“.

Sulla Roma: “A Mexes voglio bene perché abbiamo diviso un sacco di cose, Totti e De Rossi sono un bel ricordo di Roma e li ho nel cuore, ma i miei veri amici non sono nel calcio, a parte Benzema che è un fratello: li sento spesso, li vedo ogni volta che posso, sono rimasti gli stessi che lo erano già quando non ero famoso e nessuno di noi aveva una lira. Però ci divertivamo un sacco“.

No ai social: “Troppo facile così: prendi il telefonino, fai una foto, scrivi quattro cose e condividi tutto con il mondo. Automatico, freddo. Ma poi? Quasi non pensi neanche più a quello che scrivi, dunque a quello che dici. Se ho qualcosa da dire a qualcuno in particolare lo dico a lui, se proprio ho qualcosa che devo dire a tutti magari faccio un’intervista. I social sono un modo per farsi amare dalla gente, questo è sicuro, ma perché? Io non ne ho bisogno, se qualcuno mi ama non dev’essere perché scrivo cosa faccio e cosa penso su Facebook, su Twitter o perché metto una foto su Instagram“.

Un corpo segnato: “La cicatrice in testa? Un giorno io e il mio gruppo di amici ce ne siamo date un sacco con un altro gruppo del quartiere, io ne ho prese più di quante ne ho date e la cicatrice è nata li. Tatuaggi? Il primo lo feci a Roma, il nome di mia mamma Pascale. Ho detto: ‘Provo’. Ma se ne fai uno sei morto… Ti fai il secondo, il terzo e poi ti ritrovi pieno. Io ho pieno soprattutto il braccio sinistro. Se i tatuaggi sono un po’ l’immagine di una persona, anche in questo caso ho fatto solo ed esattamente quello che avevo in testa, come sempre“.

Il meglio deve ancora venire… “Non mi immagino da vecchio, anche se so che fa parte della vita e se invecchi bene vuol dire che hai vissuto bene: oggi per me l’età che passa è soprattutto quella che mi avvicina al momento di smettere con il calcio e invece voglio giocare ancora 7-8 anni, perché come ha detto da poco Ibrahimovic anche io mi sento un vino, più invecchio e più sono buono. Ha ragione, da giovane credi di essere il migliore, sbagli e non te ne accorgi neanche: ora che l’ho capito, vorrei godermela. Alla faccia degli esteti, dico che nell’uomo un po’ di panzetta non guasta: quando smetterò di giocare ce l’avrò, ci metto già la firma, perché mi piace molto mangiare“.

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