“The End”: il canto del Cigno

Nuovo appuntamento con Sympathy for the Devil: Milan, storie e rock and roll: uno spazio a cavallo tra passato, presente e future al ritmo di un brano che evoca più di una suggestione sull’argomento proposto.

THE END, THE BEATLES (ABBEY ROAD, 1969)

“And in the end
The love you make
It’s equal to the love
You make”

Sono pochissime le partite o le coppe, e ancora meno i gol, e men che meno gli uomini che hanno tranciato le corde delle emozioni come quel mezzo giro di campo. Una sigla finale perfetta nella sua malinconia, dolcissima nelle lacrime, incancellabile nell’iconografia, una roba da film, da Via col Vento, l’eroe vola via dopo un ultimo soffio di fiato e però diventa, e per sempre, il supereroe, e dunque l’immortale.

Vent’anni fa, oggi. “It was twenty years ago today, and Marco told us that he stops to play”. In una notte di estate ancora credibile, appena prima degli effimeri lustrini di un Trofeo Berlusconi. Marco Van Basten segnò per l’ultima volta, anzi, ci segnò. In maniera totale, definitiva. Sarà durato quarantacinque secondi, un minuto, lo stesso brevissimo segmento di tempo usato il giorno prima per annunciare a mezza bocca e a mezza voce che basta, non c’era niente da fare, troppo male, ciao pallone, ciao Milan. Le mani alzate al cielo e la testa bassa, come quella di uno sconfitto, sta a vedere che sta soffrendo, poi la alza, sì, sta soffrendo, perché quella corsetta bolsa, pesantina, ma minima, simile a quella dei rientri più pigri dall’area di rigore, non poteva giustificare quel lungo, interminabile respiro a bocca aperta e a occhi chiusi, quell’apnea. Sopra, intorno, gente rossonera di tutte le età che batteva le mani e tirava su col naso, raffreddori zero, commozione mille, traballavano persino gli juventini che, come tutti gli altri, potevamo persino sentirsi sollevati dal dissolversi di un simile eversore. Lui ha sofferto, ma ha retto, mai svaccare emotivamente, come gli hanno insegnato nella natìa e luterana Olanda.

Ma non ci siamo nati noi, in Olanda, e svaccammo, tutti. Non ci è nato nemmeno Fabio Capello, e non fosse bastata la frigna sugli spalti per quello spilungone che salutava da giù, ecco il bis a casa quando le immagini televisizzate mostrarono il noto mascellone contratto da una frigna tale e quale alla nostra, con le nocche della mano destra puntate negli occhi a mo’ di inutilissimo argine. Da quella sera, nelle nostre teste confuse, zona memoria, si è incollato tipo Attak un giubbottino di renna, assurdo per un 18 agosto milanese e quindi inconsciamente perfetto per materializzare il pensiero altrettanto assurdo che abbiamo dovuto invece incollare, subito, a un’altra zona del cervello: il Cigno non c’è più, non ci sarà più e chissà se e quando tornerà, magari nelle sembianze di qualcun altro. Non si è più palesato, e in nessuna forma, il contenuto di quel giubbottino di renna. Meglio così.

Marco Van Basten è rimasto unico, cristallizzato, preziosissimo patrimonio degli occhi e del cuore, Gioconda del Louvre rossonero. Non si è dovuto dividerlo con nessuno, non ha fatto a tempo a sentire sirene di paesi ricchi e lontani, a sventolare maglie dalla finestra, a sfilarsi in bracci di ferro per questioni di vile denaro. Ha fatto “puf”, e la figura in renna e camicia rosa è scomparsa di colpo, lasciando solo una nuvoletta mai spazzata di amore e gratitudine, riconoscenza e ammirazione. Nella mitizzazione immediata, in tempo reale, di MVB ha sicuramente influito la suggestione della morte (solo sportiva, deo gratias) giovane, James Dean, Jim Morrison, Che Guevara, Jimi Hendrix: ma è un attimo chiudere gli occhi e rivedere i gol, i tocchi, le mosse di danza classica e moderna intorno a un pallone, e autosentenziare che sì, ecco, alla fine Marco sta al Milan come i Beatles stanno alla musica leggera: ha cambiato il mondo con il suo genio, ha creato uno stile unico, inimitabile, ha riempito di capolavori il poco tempo, è uscito di scena all’apice prematuramente evitando – nel rammarico e nei rimpianti – anche l’inevitabile declino di tutti gli umani.

E alla fine, quel 18 agosto 1995, proprio come nella struggente chiusa di Abbey Road, il disco dell’addio, Marco ha capito che l’amore che ha ricevuto indietro dai milanisti è stato uguale a quello che lui ha dato. E che è ancora lì, tutto quanto, intero, gelosamente custodito insieme a un giubbetto di renna e a una notte a Milano, d’estate.

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