Romeo Benetti: Physical Graffiti

Nuovo appuntamento con Sympathy for the Devil: Milan, storie e rock and roll: uno spazio a cavallo tra passato, presente e future al ritmo di un brano che evoca più di una suggestione sull’argomento proposto.

IN MY TIME OF DYING, LED ZEPPELIN (PHYSICAL GRAFFITI, 1975)

“Non credo di avere mai fatto male a nessuno, credo.
Ah, l’ho fatto? Beh, a qualcuno ho fatto del bene, io lo so”

Dieci anni esatti, spaccati di differenza, e dunque cifra tonda per entrambi. Eppure la stampa italica ha (giustamente) celebrato gli 80 anni del “Ragno Nero” Fabio Cudicini e ha completamente oscurato i 70 del “Tigre” Romeo Benetti. Chissà, forse residuo timore di una zampata, di un ruggito, di quello sguardo di ghiaccio sparato fuori da un viso intagliato nella pietra dura. Un autentico Stone, Benetti, ma assai poco Rolling: o meglio, a rotolare erano gli avversari: stesi dai suoi tackles i più temerari, mentre beccheggianti al largo erano molti altri che partiti per picchiare l’impicchiabile, dopo poco si autoconsigliavano di stare fuori dalle acque territoriali del Tigre. Era uno strano tipo di cattivo: perché cattivo, in campo, lo era per davvero, anzi, spietato, nel suo agonismo, nello “struggle for life”. E appena fuori dall’erba, con una gentilezza sempre ombrata da un’espressione tagliente, giustificava con il massimo della naturalezza e della sincerità che così era giusto che lui e tutti gli altri intendessero il calcio, una sorta di mors tua vita mea in cui non si poteva accettare di soccombere, lo facessero gli altri.

Qualche anno fa, i guastatori dell’inglese Sun si divertivano molto a compilare fantasiose top ten calcistiche, e arrivò il giorno dei migliori (o peggiori?) pericoli pubblici apparsi a centrocampo e dintorni: Graeme Souness fu eletto bastardo ad honorem e per Romeo ci fu un onorevolissimo quarto posto. Lui, nonché ringraziare, si incazzò, perché riteneva seriamente, a ragion veduta, di meritare l’Oscar alla carriera. Ancora oggi, a quasi 45 anni di distanza, si parla dell’intervento che a San Siro, in un Milan-Bologna, fece letteralmente fuori i sogni di gloria di Franco Liguori, brillante mediano appena affacciatosi alla Serie A che pochi minuti prima (esiste documentazione fotografica e video), ebbe la bruttissima idea di entrare deciso e a scivolone sui talloni di Benetti. La punizione di Romeo rappresenta ancora oggi un insuperato esempio di esecuzione dell’avversario, che praticamente chiuse lì la sua carriera ad alti livelli: si dispiacque per la sorte di Liguori, Benetti, ma scuse mai, pentimento? E perché? Cose che capitano. Fallo da codice penale, diciamo a volte osservando qualche tentativo di operazione chirurgica in campo: successe per davvero, quella volta, il Tigre fu denunciato alla Procura. Ma nemmeno i giudici, una campagna di stampa violenta come e più delle sue entratine, l’odio dei tifosi avversari cambiarono la filosofia di calcio di Romeo: se uno nasce quadrato, non muore tondo, ricorda un suo presunto erede, Gennaro Gattuso.

In sei anni di Milan, tre di Juve, 10 di Nazionale e contorni vari, l’ipertrofico, michelangiolesco quadricipite di Benetti non è arretrato mai di un centimetro: ha stabilito record imbattuti intimorendo gente come Furino ai tempi rossoneri, insistendo in entrate omicide alla Juventus (Castellini, in un derby, rischiò la fine di Liguori) e, soprattutto, sfidando i 100mila di Buenos Aires stendendo argentini come panni al sole ai Mondiali 1978 mentre Bettega pensava a segnare lo stupendo gol di una vittoria storica. In tutto questo, il Tigre non è stato mai espulso: che incutesse timore anche agli arbitri appare evidente, ma è altresì vero che per lui ha pagato una lealtà di fondo, il carattere tutto di un pezzo mostrato anche in spogliatoio. Mai e poi mai, Enzo Bearzot si sarebbe portato dietro uno fino ai 35 anni se non fosse stato degno, come uomo prima e come giocatore poi.

Al Milan, il Tigre dovrebbe essere ancora oggi una specie di istituzione: invece è un ex importante, sicuramente invitabile al tavolo dei grandi, ma non tramandato nelle generazioni come icona irremovibile. Per tante ragioni, forse, prima fra tutti la sua partenza verso l’odiata Juventus, con cui pronti via fece gol al Diavolo: ma fu Rivera, meglio ricordarlo, a spingerlo verso la Gobba insieme al giovane mister Trapattoni (complimenti, bella scelta) per riprendersi una fascia di capitano volata verso Romeo insieme a una leadership sempre più forte, impossibile da condividere per una voce solista come il Golden Boy. È mancata anche la grandissima vittoria. Anche lui, come tutti, è rimasto sotto le macerie di Verona 1973 e quando si è rialzato non aveva a fianco altri decisi alla stessa maniera. E poi, il suo carattere particolare, la sua vita particolare non lo ha aiutato a entrare nell’immaginario della gente: allevava canarini – pensa te che roba, il “killer” e gli uccellini -, maldigeriva i giornali e le critiche, non era per nulla propenso ad arruffianarsi compagni, mister, tifosi, stampa, gente influente. È stata la forza perfetta per completare il genio di Rivera, aveva tecnica, senso tattico, ha segnato reti splendide – pazzesca una al derby 1972, di destro, in corsa, da 30 metri -, ha vinto Coppe e mancato scudetti, ha rappresentato prima di Ancelotti e Gattuso il supporter che vuole coloro chi, in suo nome, combatta fino all’ultima goccia. Carlo e Rino sono e saranno amati incondizionatamente, sempre, dal Diavolista: Romeo no. Da tanto tempo, dal ritiro praticamente, vive nella collina sopra Chiavari, tra monte e mare, con famiglia, animali, gli amati uccelli. Qualche tempo fa lo davano intento a costruirsi un garage, mattone per mattone, sfoggiando muscoli ancora preoccupanti per gli altri. Auguri Tigre, dagli anni ’70 ai 70 anni, e non li puoi neanche stendere.

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