Costacurta: “Io in rossonero? Sto bene così. La difesa del mio Milan tra le migliori mai esistite, Ancelotti allenatore unico”

Alessandro Costacurta, nel corso di un’intervista rilasciata all’edizione odierna del Corriere dello Sport, ha parlato della sua carriera in rossonero, concentrandosi sul suo rapporto con i vari allenatori susseguitisi sulla panchina del Milan:

Iniziai nella Asso, una succursale del Torino, che divenne rossonera perché giocammo contro il Milan. In quell’occasione, io, che ero stato schierato a centrocampo, segnai due gol. In verità, quando iniziai a giocare, da ragazzo, chiesi di poter fare il libero: pensavo che, in quel ruolo, potessi fare quello che mi pareva. La mia interpretazione letterale non coincideva con quella dell’allenatore, che mi disse che non avevo capito nulla e che mi sarei dovuto mettere tranquillo, davanti al portiere, senza muovermi. Il mio primo allenatore si chiamava Fausto Braga, parlava solo il dialetto milanese. Fu lui che mi fece capire il valore dell’allenamento, di una crescita che nasceva dalla fatica e dal sacrificio. Poi, maturai con Fabio Capello, che allenava la Berretti. Lui curava molto da formazione individuale, la crescita tecnica del singolo. Non è mai cambiato. Mi ricordo, in quegli anni, che, nello spogliatoio, durante l’intervallo di un derby, entrò urlando e prendendo a calci le nostre borse: shampoo e saponi volarono dappertutto. Quella aggressività l’ha sempre accompagnato: non abbiamo mai capito quanto fosse reale e quanto fosse uno strumento per tenere il gruppo costantemente sotto pressione. In Prima Squadra, mi portò Liedholm, che era il contrario di Capello: era sempre tranquillo e sereno, con una grande capacità di coinvolgere il prossimo. Tuttavia, quando vedeva un pallone scagliato via in maniera grossolana, il volto gli si diventava tutto rosso, sembrava stesse per deflagrare. Non sopportava le palle buttate via in qualche modo. All’inizio, non gli piacevo tanto, non ero del livello tecnico che lui gradiva. Sacchi? Guardava meno alla tecnica, più alla tattica e alla disciplina in campo. Il suo mantra era la precisione dei movimenti. In ogni caso, è stato un grande insegnante di calcio. Correggeva dettagli che noi non pensavamo potesse notare chi non avesse giocato a calcio a grandi livelli. Ci insegnava, nel 1987, la disposizione dei piedi e ci faceva capire come la giusta posizione consentisse il tempo corretto di anticipo sull’avversario. Era capace di essere anche ossessionante. In quell’ora e mezza di allenamento, era vietato ridere e parlare. In ritiro, prima di ogni partita, non era permesso ridere. In piena notte, a volte, lo sentivamo urlare nel sonno le disposizioni tattiche. Zaccheroni? Aveva una totale fiducia in noi. Con me e Maldini, condivideva tutte le decisioni. Ci coinvolgeva, ci convinceva e ci faceva sentire importanti. E poi, tatticamente, è stato l’allenatore capace di creare, con i movimenti di ogni linea, il maggior numero di giocate possibili per ciascuno di noi. Il movimento della squadra era perfetto. Terim? Arrivò con la presunzione di un imperatore. Pensava davvero di essere più importante di ciascuno di noi e della società. Fumava nel ristorante e iniziava la cena senza aspettare Galliani. Alla prima partita, non mi convocò, senza nemmeno dirmelo. Fu il direttore sportivo, sul pullman, a comunicarmelo: io ci rimasi male, ma ci rimase male anche tutta la squadra. Non eravamo abituati a essere trattati così. Esigevamo più rispetto, non eravamo pivelli. Ancelotti? Con lui, io e Maldini avevamo giocato a lungo. All’inizio, io e Paolo gli davamo del lei, malgrado lui non volesse. Era straordinario, nella costruzione del gruppo, nell’amalgama che sapeva tessere con tutti noi, in campo e fuori. Sapeva coinvolgere e noi non siamo mai stati così uniti come quando lui ci ha allenato. Tabarez? Era un vero signore e capiva di calcio. Quello con lui in panchina non era stato un anno fortunato, ma ciò non toglie nulla alle sue qualità. Nella vita, si può essere grandi senza vincere sempre“.

E ancora: “Non so se quella composta da me, Tassotti, Baresi e Maldini fosse la linea difensiva più forte di sempre. Di certo, però, era quella che si muoveva meglio insieme: non sbagliavamo di un centimetro i movimenti. Anche sotto l’aspetto della tecnica individuale, tra l’altro, non eravamo male. Diciamo che ce la giochiamo con la BBC e con la difesa della Germania del ’74. Litigi nello spogliatoio? Secondo me, quello più avvilente fu in campo, per un contrasto. Fu tra due amici, che giocavano insieme anche a golf: Tassotti e Van Basten. Si presero proprio a pugni, fu choccante. Poi, passò tutto presto, senza lasciare strascichi. Io, invece, litigai con Seedorf. Durante un match, invece, litigarono Maldini e Borriello. In un’altra occasione, litigarono di brutto Capello e Gullit. Fabio aveva lasciato fuori squadra Ruud e giustificò la scelta parlando di problema fisico. Gullit, invece, voleva che si dicesse che era stata una scelta tecnica. I due discussero aspramente e, a un certo punto, Ruud prese Capello per il bavero e lo sollevò da terra. Fabio fu bravissimo, non fece una grinza e aspettò di essere rimesso giù. Governò bene quella situazione. Certo, Gullit era anche grosso: non penso che, con Cornacchini, Capello avrebbe fatto lo stesso. Il trofeo a cui sono più legato? La Coppa dei Campioni del ’94 e la Champions League del 2003. La vicenda Maldini-Milan? E’ stata fatta una scelta con una strana tempistica. Paolo, forse, in questi anni, ha sbagliato a non fare corsi. Quest’ultimo aspetto può avere spaventato i cinesi. In ogni caso, prima di scegliere Mirabelli, avrebbero potuto indicare Maldini. Lui non voleva cariche, non pretendeva il posto di Galliani, ma voleva essere il responsabile dell’area tecnica. Voleva chiarezza. Poi, Paolo non ha apprezzato alcune uscite dei nuovi dirigenti e la situazione è morta lì. Quando capiremo chi sia davvero il nuovo padrone del Milan, sono certo che Maldini verrà richiamato: è una grande risorsa per i rossoneri. Io al Milan da dirigente? Oggi, sento di essere un padre e un marito migliore. Posso viaggiare e conoscere, che è ciò che mi piace di più al mondo. Oggi, a Sky, sono in una condizione bellissima: ho raggiunto la serenità personale e professionale. L’unica cosa che mi possa turbare sarebbe la proposta di allenare una squadra negli Stati Uniti. Quest’ultimo è un mondo, non solo sportivo, che mi affascina e mi attira“.

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