Inutili e in disparte nel momento clou della stagione: ormai ci siamo (tristemente) abituati

E un’altra giornata è passata. Fra gol, insulti, salvezze riaperte, insulti, cartellini, gomitate, colori dei cartellini, insulti, piagnistei, rimonte, imbarcate, ancora insulti e simili. E’ stato un weekend ricco e bello vivo. Di quelli che non ti fanno rimpiangere l’uggiosa monotonia della pausa nazionali.

Eppure c’è qualcosa che lascia parecchio amaro in bocca. E, guarda un po’, non c’entra col rosso-non rosso di Vecino. Ma neppure col giallo-non giallo di Pjanic. E neanche col rosso (sacrosanto) di Koulibaly. Non c’entra col rimontone della Juve a Milano. Nè con i tre schiaffi del poco compassionevole Cholito alla banda di Sarri. (Che a Napoli hanno placato definitivamente i botti post-Juve, decretando formalmente i prossimi, soliti campioni d’Italia). Non c’entra, in generale, con la lotta (che ormai lotta non è più) scudetto. E con la rincorsa (ragionevolmente destinata a rimanere vana) alla Champions di Icardi e i suoi.

Non c’entra con tutto questo. Ma c’entra con tutto questo non c’entrare. Mi spiego. E’ proprio il non aver a che fare con nessuna delle vicende clou del momento che, appunto, lascia un amaro (bello forte peraltro) in bocca. Oggi il Milan, ridotto a una lotta piatta e modesta per la zona Europa League, non c’entra categoricamente nulla non solo con lo scudetto, ma neppure col quarto posto. Il che, per quanto non proprio piacevolissimo, ci starebbe pure. Almeno se si trattasse di una stagione. Ma anche due. Tre (esagerando). Ma qui parliamo di cinque anni.

A questo punto qualche domanda bisogna farsela. O perlomeno porsi un interrogativo: convincersi di essere un club da Europa League o decidersi a puntare (veramente) su quell’altra Europa, quella che conta per davvero? La risposta, se ti chiami A.C. Milan, non dovrebbe essere troppo complessa. Ora, se scegli di agire in questa direzione devi comportarti in un certo modo. Cioè: non puoi dire punto alla Champions e poi fare una squadra da Europa League.

Per questo i presupposti per l’anno prossimo non sono esattamente dei migliori. Reina, Strinic, Ki, Bernard: bei nomi, d’accordo. Ma non costruisci su di loro una squadra da Champions. Al massimo un altro settimo, sesto, magari quinto posto. In Champions ci vai con i top-player, con quelli che da soli ti cambiano le partite, quelli che fanno gol, quelli che sanno cosa significa vincere. Non con gli André Silva e i Kalinic. Ma se con 250 milioni hanno creato una squadra da settimo posto, dall’anno prossimo, francamente, non so più cosa aspettarmi.

 

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