La libertà è gridare “Forza Milan”

C’è una foto bellissima, in giro, è datata 31 maggio 1945. C’è una squadra di calcio nel sole, una gradinata piccola e gremita sullo sfondo. La squadra ha una maglia bianca e due strisce verticali che si intuiscono di diversa tonalità al centro. Pressoché tutti sorridono, e nella luce quel sorriso risulta vivido, quasi abbagliante. Era il sorriso della libertà, di potere di finalmente giocare a calcio e poi vivere, e vivere giocando a calcio. È l’ultima foto del Milan, o ancora meglio, quella che può esse considerata la prima foto del nuovo, resuscitato Milan, del Diavolo uscito come tutti dalla guerra e in speciale modo da quella civile, 19 mesi e mezzo di morte, distruzione, dolore, angoscia e fame nell’occupazione tedesca a terra e nei bombardamenti alleati in cielo. Milano come un tragico ring, a finire al tappeto i suoi figli. Le continue stragi, anche di innocenti come le centinaia di bimbi della scuola di Gorla. I rastrellamenti. Le macerie. Il siciliano Quasimodo che afferma in una delle sue poesie più famose e laceranti che la città è morta “dopo l’ultimo rombo sul cuore del Naviglio”.

E invece no. Milano vive, o meglio sopravvive, si attacca a tutto quello che può rappresentare ancora un’ombra di speranza, di normalità. Come le sue squadre di calcio, come il Milan, anzi no, il Milano, come si chiama dal 1939 per la “italianizzazione” casualmente proposta Nel dal “Popolo d’Italia”, il giornale del regime fascista ed “entusiasticamente appoggiata” dagli sportivi milanesi. Certo, come no. Il Milano che, tornato decentemente competitivo all’inizio del decennio, viene spazzato via dal conflitto e tuttavia tiene duro, come i dirimpettai dell’Ambrosiana, come gli altri sodalizi più o meno importanti della Lombardia. Gianni Brera, nella sua fondamentale “Storia Critica del Calcio Italiano”, offre uno spaccato perfetto di quel calcio, tra campionati di guerra con trasferimenti arrischiati tra un allarme aereo e l’altro, tornei o “partite benefiche” organizzate da proprietari terrieri per cui il conflitto – vedi alla voce mercato nero – era perfino un affare, e offrivano spettacoli per tenersi buono il popolo a pezzi. Per i calciatori, gettone in natura: strutto, farina, uova, formaggio, la preziosissima carne. Nel Milano, in quel bailamme, mettono piede anche il futuro c.t. azzurro Valcareggi, Romeo Menti del Grande Torino, si vede un ragazzo di Viale Umbria, Carletto Annovazzi. Il campionato Alta Italia – quello reso noto dai Vigili del Fuoco di La Spezia, per intendersi – risulta un’avventura, la stagione seguente, quella definibile come 1944/45, diventa nella sua prima parte un esercizio ai confini del metafisico. L’autunno è quello del terrore più bieco, della disperata e violenta determinazione dei tedeschi, che si vedono mangiare terreno dagli Alleati e sono duramente impegnati anche dai partigiani. E a calcio, proprio, non si gioca. Ma in inverno si ricomincia, quasi come se date pedate a un pallone o osservarle equivalesse a respirare. È la natura, la vita, o si respira o si muore. Il Milano, e le altre lombarde, mettono in piedi un “Torneo Benefico” in cui il Vigevano o il Meda ti rifilano cinque gol semplicemente perché l’agricoltore di turno ingaggia il campione con le modalità di cui sopra. E nei pochissimi documenti visivi esistenti, quello che colpisce è la gente, questa altra forma di Resistenza della passione, dell’anima. L’Arena piena zeppa per il derby, Milano e Ambrosiana, c’è la voglia e il tempo anche di fare una radiocronaca. Forse perché ormai è marzo, il sangue continua a scorrere. Ma il traguardo è all’orizzonte.

Il Torneo Benefico, a un certo punto, si ferma. Perché è il momento del riscatto, della spinta definitiva, dell’insurrezione, della fine del lungo incubo. Il 25 Aprile, o ancora meglio il 26, la mattina in cui Milano si è alzata finalmente sola con se stessa, con le sue ferite ancora profondissime, gravi, ma con un futuro davanti. In quello anche il suo pallone, e il Milano, la sua prima squadra, il contagio del morbo più bello, quello chiamato football. E il football l’ha portato il Milan, con l’accento sulla “I”, alla faccia degli inglesi, e dei fascisti soprattutto, la loro cretina “italianizzazione”. Il Milan esiliato dalle ragioni sociali, dal nero su bianco, non dal cuore, non dalla fantasia. Il tempo di ricompattarsi, di rimettere insieme i cocci della società, di tornare in campo. Riprende il campionatino lombardo, con altro spirito, con una voglia nuova. La prima partita del Diavolo libero ha luogo il 27 maggio all’Arena, contro il Como: ne prende quattro, immaginatevi quale poteva essere la condizione di quel calcio e di quei calciatori. Ma chi se ne frega, ma ne avessero presi anche otto. Perché è bellissimo, anzi, stupendo pensare che lì, in quella domenica ormai lontana, tutta la gente rossonera che nel disastro e nella polvere degli stenti si era aggrappata anche a quel bisillabo mai dimenticato, si sia ritrovata lì per poterlo finalmente gridare, urlare come fosse un inno di libertà. Milan. Milan. No Milano, è finita col Milano, con le dittature che umiliano per prima il pensiero, la cultura. Forza Milan, forza libertà. Milano è la città, la casa, la culla, il posto di sempre. Il Milan è il Milan, e che gioia potere finalmente dirlo apertamente, insieme, come segnale che si ricomincia a vivere, a sperare in un futuro migliore. Cominciato quattro giorni dopo, quella immagine dei giovani sorridenti in bianca casacca, scattata a Novara. Tre a zero. Si ripartiva, e quelle labbra così radiosamente dilatate sembravano dirci, lo capiamo forse oggi, che il domani di pallone e di esistenza sarebbe stato fantastico. E lo è stato. Il 14 giugno, due settimane dopo, la formalizzazione: in quel giorno e per sempre, torna ufficialmente l’Associazione Calcio Milan. E per sempre, allora, Forza Milan. Ma con il senso di quello urlato da quei meravigliosi predecessori dal cuore rossonero, in quella primavera da tenere sempre stretta.

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