Dalla famiglia alla “casa di cura”, chi vuole allenarsi a Milanello?

Il Milan continua a fluttuare nelle acque tranquille e monotone di centro classifica, tendente più verso il basso che verso l’alto a dirla tutta. Quattro sconfitte, tre vittorie ed un pareggio, arrivato nell’ultima giornata di campionato a Torino contro i granata, sono un bilancio normale, anche buono per una squadra che deve lottare per fare un campionato tranquillo e salvarsi senza sofferenze. Di certo non per il Milan. La seconda peggiore difesa del campionato, un attacco spuntato e che segna poco (poco meno della metà dei gol realizzati sono stati messi a segno da Carlos Bacca), un’identità di gioco che non esiste e lo scheletro di una benché minima squadra tipo che non c’è mai stato.

Sinisa Mihajlovic era arrivato con tanti buoni propositi, con tanta fiducia da parte della piazza e accompagnato da un mercato importante, 90 milioni di euro spesi come da tempo non succedeva a Milanello. Ora sta per finire nel solito tritacarne societario e dirigenziale che mangia allenatori in serie, cercando di scaricare le colpe su un solo uomo e facendolo diventare il capro espiatorio di una squadra che non va e continua a non andare. Tralasciando per una volta l’aspetto tecnico e di squadra, restando comunque dell’idea che il Milan non ha una squadra da metà classifica, ma di certo non è in grado di competere con le quattro o cinque grandi del torneo, è meglio concentrarci su quello che era il Milan una volta, la storia ed il timore che incuteva agli avversari quando scendevano in campo per affrontarlo.

Nelle ultime settimane si è assistito al ritorno di Kevin Prince Boateng, si era parlato di un Milanello aperto anche ad un altro ex rimasto senza squadra come Urby Emanuelson. Un paio di anni fa si era assistito al Kakà 2, l’ennesimo modo per zittire e dare la pillolina al tifoso per gettare fumo nell’occhio e distoglierlo dalla realtà dei fatti. Ora, però questa realtà non si può più nascondere ed è chiara ormai a tutti, o quasi. Il Milan non è più il Milan, non esiste più una società seria alle spalle, non ci sono più dei dirigenti credibili, non c’è più il minimo senso di appartenenza alla maglia e, cosa assai più grave, è sparito quel dna che faceva capire a tutti dove si trovassero una volta entrati nello spogliatoio rossonero.

Del Milan sono rimasti solo i colori, le maglie, le coppe in bacheca e le celebrazioni televisive e mediatiche fatte per tener contento qualche sponsor, facendo leva sulla grandezza e l’importanza che ha rivestito il Diavolo nel recente passato. I Baresi, i Tassotti, i Maldini, i Costacurta, i gregari che nello spogliatoio riprendevano i più giovani per farli capire dove si trovassero, non ci sono più. La maglia viene sudata (quando viene fatto) più per onor di firma che per reale passione e attaccamento ai colori. Il lavoro da fare è tanto e bisogna ripartire da zero, ma la volontà di farlo per davvero non c’è e continuando di questo passo si rischia solo di bruciare allenatori, rovinare la carriera di alcuni buoni calciatori e togliere le speranze ad alcuni giovani interessanti. La storia delle ultime tre stagioni ci ha insegnato questo e intanto il tifoso perde la voglia di sperare, sognare ed arrabbiarsi per i colori che tanto ama già ad ottobre.

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