Cronache del 30ennale: War! (Egem)

Nuovo appuntamento con Sympathy for the Devil: Milan, storie e rock and roll, uno spazio a cavallo tra passato, presente e futuro al ritmo di un brano che evoca più di una suggestione sull’argomento proposto.

1986-2016: trent’anni di Silvio Berlusconi. Viaggio in tre tappe verso l’anniversario della “rifondazione rossonera”.
Prima tappa: Milan-Waregem, comincia la “guerra di liberazione”

La sciarpa, come un sacco di altre, finì in uno dei cento falò accesi fuori dallo stadio, che gettavano una luce ancora più sinistra su quello scenario post-guerriglia urbana. La sciarpa della Serie B, di tutti i primi anni di curva, bruciata perché bisognava bruciarla, fare qualcosa per esserci, per dire, sì, ci sto anch’io, anch’io penso che tutto sia una merda e che i tifosi veri debbano fare la rivoluzione. Milan-Waregem, Coppa UEFA, 11 dicembre 1985, è una di quelle storie di culto di questi 116 anni, quasi dimenticate, eppure fondamentali, lo capisci dopo quanto lo siano state. Sempre ammesso che ti ricordi.

Era un terzo turno di Coppa, quindi per il milanista di quegli anni complicati qualcosa di simile a una semifinale Champions, o robe del genere. Perché passare significava sbarcare nella primavera a venire ancora in Europa, un insignificante enorme traguardo che il Milan non conseguiva da dieci anni secchi, stagione 1975/76, sempre Coppa Uefa, furto subìto dal Bruges nei quarti. Belgi come questi qui del Waregem, guarda te il caso. Loro, una squadra di onesti prestatori d’opera pallonara, due nazionali, Millecamps e Veyt, e un plotone di sconosciuti. Correndo molto più del compassato Diavolo, avevano giocato decisamente meglio dei pupilli di Nils Liedholm la gara di andata: però gli oroscopi cari al Barone erano evidentemente buoni, e il solito Pietropaolo Virdis mise la biglia dell’1-1 a un minuto dalla fine. Verso i quarti di finale, strada pianeggiante: peccato che però arrivo, attesa, la nebbia. Non quella vera, tipica della stagione. Ma una nebbia metaforica molto meno affascinante e pericolosissima per l’auto del Milan. Da giorni e settimane, ormai, rimbalzava dai giornali e dalla strada la voce di una società a pezzi, tutti contro tutti, con i conti da mani nei capelli e senza uno straccio di programma futuro e futuribile. Come sempre, era il campo il primo a urlare: la squadra, dopo un ottimo avvio di campionato che la portò anche al secondo posto e i primi giri europei portati a termine con Auxerre e Lokomotiv Lipsia, era in involuzione, si stava attorcigliando su se stessa.

I limiti dell’organico messo insieme da Farina, che aveva mollato Battistini, Verza e Incocciati per prendere un logoratissimo Paolo Rossi e una manica di comprimari (il giovanissimo Bortolazzi, Macina, il carneade Mancuso del Messina, presentatosi come il Cabrini del Sud), stavano venendo su rapidi come gli gnocchi nell’acqua bollente. Tensione e freddo da tagliare col coltello, in quell’11 dicembre, ma le cose si misero comunque bene, visto che – dopo un inizio da pena e panico – il giovane Marietto Bortolazzi pescò il jolly infilando la porta dei fiamminghi con un bellissimo destro da fuori. Il frontale con la realtà infame si materializzò a sorpresa un minuto prima dell’intervallo, l’arbitro cecoslovacco Christov incapace e inconsapevole strumento del destino: vaccata collettiva della difesa su un fuorigioco, Van Baekel si invola verso la porta, scarta Terraneo uscito alla speraindio, ma si allunga troppo il pallone, che Filippone Galli in disperata rincorsa allunga in calcio d’angolo da un metro circa fuori dall’area. Calcio di rigore.
Guardate e riguardate l’azione qui.

Forse – insieme al gol negato a Van Basten nella replica di Stella Rossa-Milan 1988 – la più grossa porcata mai subìta dal Milan in 60 anni di Coppe europee. Viene giù il mondo. Tonnellate di aranci e pompelmi in campo, roba da tirare fuori spremute per tre o quattro inverni; arbitro assaltato dai rossoneri in campo, guardalinee colpito da una moneta e zampillante sangue. Quando la rivolta viene sedata, Desmet segna l’assurdo penalty, e il vulcano è ormai pronto a esplodere. L’osceno penalty è una scusa.

L’eruzione al 67′, metà ripresa precisa. Rimane nella memoria dei tifosi milanesi agés perché su Mutombo, ala di origine zairese, gli interisti ci hanno marciato per anni, almeno fino in zona Sacchi. In realtà il nostro si limita a sparare un ignorantissimo cross che tuttavia trovò sul secondo palo il solissimo Veyt. È l’ 1-2, servono due reti che l’arrancante Milan del tiki-taka liedholmiano, privo della zucca di Hateley, ritmico come una vecchia pendola, non potrà mai buttare dentro. E allora, si può passare dal Waregem alla War, alla guerra. Il nemico è solo uno, Giussy Farina, il bluff è ormai scoperto, le carte sono sul tavolo e cantano un fallimento tecnico e soprattutto finanziario. La tribuna del poco onore invasa da un gruppetto mica banale proveniente direttamente dalla Sud, il presidente, appassionatissimo di caccia, sa benissimo cosa devono fare le prede, vale a dire togliersi dalla vista di chi ti vuole catturare. Al fischio finale, Brigate e Fossa spostano il fronte fuori, cercano di raggiungere gli spogliatoi, vengono respinti dalla Polizia con cariche, lacrimogeni e fior di botte, restituite a suon di bottiglie e spranghe. Il fatto che vengano fermati in 12, e siano tutti minorenni, provoca oggi, più che sdegno, una paradossale tenerezza e una certamente spiegabilissima nostalgia per quella Sud lì. Vabbé.

La mattina seguente, mentre l’azienda dei rifiuti si dà da fare fuori dai cancelli, Farina fa due conti e capisce che anche la sua partita è finita, che pure lui, come il Milan dalla Coppa UEFA, è fuori. Venerdì 13 – vedi come cadono bene certe date – in via Turati c’è in corso un consiglio di amministrazione con mare forza sette, al timone, sempre più incapace di tenere una rotta, Gianni Rivera, che sta completando come dirigente la distruzione del suo stesso mito. La porta si apre, entra il Giussy, e spara sul tavolo l’ all-in delle dimissioni. “Me ne vado, lascio, e non dico perché nell’interesse del Milan. Ma qualcuno mi ha tradito“. Dire quest’ultima frase, di venerdì, a un tavolo con una decina di persone, fa istantaneamente pensare a un precedente leggermente più importante. E comunque, i Grandi Misteri sono presto chiariti: il perché perviene sotto forma di lettera alla Società la domenica, il 15, mentre il Milan sta per scendere in campo a San Siro con la Juve fresca campione del Mondo. Il mittente è la FIGC e si comunica con estrema gentilezza al presidentissimo che sono stati beccati notevoli buchi nei conti bancari e che sono tutto meno che chiari i bilanci delle società satellite, le cosiddette “scatole cinesi”, che Farina ha creato esternalizzando branche di attività del club e diversificando, per così dire, il rosso e il nero, intesi non come colori sociali, ma come passività di esercizio e soldi non dichiarati. Per quanto riguarda il Giuda del tavolo consiliare, molti puntano gli occhi su Gianni Rivera, che si sarebbe mosso sottotraccia con il suo ex presidente Federico Sordillo, a capo della Federazione, per fare fuori Farina prima che sia troppo tardi. Però, mentre Roma si agita, qualcuno a Milano agisce. Qualche notte di riflessione, di confronti, di calcoli, qualche telefonata verso alte e meno alte sfere. Dopodiché, giorno di grazia martedì 17 dicembre 1985, Silvio Berlusconi comunica alle agenzie che il Milan, “la squadra di cui sono da sempre tifoso”, è pronto a prenderlo lui. E casualmente (ehm), la sera seguente incrocia Giussy Farina in un ristorante milanese: “Non perdiamo tempo, non sono abituato a farlo“. Se ne perderà, invece, in un complicato risiko di azioni, sequestri, avvocati, ombre di fallimento, mosse, contromosse, altre telefonate altolocate. Ma, intanto, quando prendono in edicola la Gazzetta del 18, i milanisti sentono intorno il sole, il caldo, gli uccellini, la nebbia si è alzata, ecco il re dell’imprenditoria italiana che porta la benedetta primavera. Una sola settimana dopo il maledetto Waregem, il maledetto Mutombo. Ah, a proposito: quel Waregem lì è poi sparito nel 1999, costretto a fondersi per sopravvivere in qualche modo. Chi tocca i fili muore. E infine: ma qualcuno l’ha mai ringraziato, quel Christov, per essersi inventato quel rigore?

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