Il regalo più bello è la Supercoppa: ecco perché abbiamo vinto

Ce lo ha insegnato la Juve di Conte nel 2012, lo abbiamo imparato bene e messo in pratica ieri sera a Doha in una Supercoppa che vale molto più di tutte le altre. L’insegnamento è semplice: il calcio è uno sport molto particolare dove spesso capita che vinca chi ha una squadra più unita a discapito di chi ha la squadra più forte. Successe nel 2012 quando il Milan di Ibra perse lo scudetto contro la Juve di Matri ed è successo ieri sera quando la Juve di mister 90 milioni Higuain ha perso contro il Milan di Suso, costato 300 volte meno. A proposito, faccio ammenda per la mia sbagliatissima valutazione sullo spagnolo. Ero in buona compagnia, ma non a caso faccio il giornalista, l’opinionista o al massimo il tifoso e lascio fare le scelte tecniche a chi lo fa di lavoro.

In quel gennaio 2012 la famosa vicenda Pato-Tevez segnava ufficialmente l’inizio dell’era “barbaride” nella sede di via Turati, che presto non fu più nemmeno quella. La durissima lotta intestina interna alla società si trasferì presto alla squadra. Le eliminazioni da Coppa Italia e Champions League permisero alla fazione della new age di rifilare le prime picconate al regno di Galliani e Allegri. Mentre la squadra si sfaldava, Ibra era sempre più solo contro tutti e intanto contrasti e malumori arrivavano rapidi a Vinovo grazie ai numerosi contatti mantenuti da Pirlo all’interno dello spogliatoio rossonero. Il gol negato a Muntari era la rappresentazione plastica di un ritorno al potere della Juventus che dopo gli anni degli Elkann e di Blanc era tornata ad avere una coesione interna e, conseguentemente, un maggior peso all’esterno. Peso che presto sarebbe stato non solo politico, ma anche economico e mediatico.

Lo scudetto clamorosamente perso contro un avversario molto più scarso, ma molto più unito fu la fine di un’epoca. Al presidente fu presentato come un “fallimento” di Galliani e Allegri e così Berlusconi, travolto dalle pressioni politiche, dalle varie sentenze e dalla crisi che iniziava a mettere in crisi i conti del suo impero economico, non osò opporsi allo smantellamento della squadra voluto da Fininvest. Le cessioni di Ibra, Thiago e tutti i campioni permisero alle casse di Fininvest di respirare, ma stavano per arrivare anni in cui il Milan avrebbe ridotto drasticamente le spese per comprare i giocatori aumentando a dismisura quelle per altri “progetti”, tipo la nuova sede, il nuovo stadio mai nato o le nuove iniziative di marketing, che invece di far crescere il fatturato, lo hanno visto bloccarsi.

La diaspora dei “talenti” dal campo si estese anche alla società. Dopo le dimissioni rientrate di Galliani, nel giro di un mese il Milan perse nell’ordine il direttore marketing Laura Masi, il direttore sportivo Ariedo Braida e il responsabile tecnico Massimiliano Allegri. In poco più di un anno li abbiamo ritrovati nei medesimi ruoli delle prime tre squadre dellla Champions, rispettivamente il Bayern, il Barça e la Juventus. Il miracoloso “terzo posto” del 2013 aveva soltanto posticipato il progetto di “smantellamento” voluto da Barbara e dai suoi. La parte sportiva continuava ad essere gestita da Galliani con le infiltrazioni presidenziali. A ogni sconfitta o scelta sbagliata c’era chi in società era pronto a darsi di gomito dicendo: “Ecco è colpa di quel vecchio che non capisce niente di calcio e fa affari solo con i suoi amichetti”. Galliani doveva barcamenarsi tra le coltellate di via Rossi (numerose quelle alle spalle dei suoi “ex uomini”) e le romantiche, ma anche anacronistiche idee presidenziali convinto che una squadra di scarti potesse giocare come il Barcellona di Guardiola. Ne hanno fatto le spese una manciata di allenatori o supposti tali e un bel gruppetto di giocatori. Alcuni dei quali non erano “malaccio” e infatti, via dal Milan, hanno ricominciato a fare buone cose. Sono rimasti i più bravi a ingraziarsi i Berlusconi (padre e figlia) e quelli legati al loro contratto dorato.

Intanto Fininvest, a partire dal 2014 (con effetto sul bilancio 2013) decide di non beneficiare più degli sgravi fiscali provenienti dalla “controllata” rossonera. Il debito del Milan, dopo 27 anni, rimane perciò “in capo” al Milan ed è così che i bilanci diventano sempre più pesanti e sempre meno sostenibili dalla controllante. Fininvest non ha più nessun vantaggio a tenere il Milan, nemmeno di carattere fiscale. Così inizia nel 2014 la folle “caccia” all’acquirente che in realtà non è ancora finita, nonostante le favole che ci raccontano le agenzie di comunicazione cinesi o supposte tali. Se non altro perchè è difficile trovare, anche nel mondo delle favole, un acquirente o una cordata disposta ad accollarsi una società che da 30 anni produce perdite e costa più o meno 100 milioni all’anno per il mantenimento. Contando che ne fattura 250 mentre i grandi club europei hanno sfondato stabilmente quota 500 e che il passivo di ogni esercizio si attesta mediamente sui 60-70 milioni, chi mai la comprerebbe per giunta strapagandola? Pensiamo che l’Inter è costata meno della metà di quello che chiede Fininvest per il 99% del Milan.

In questo contesto Fininvest ha definitivamente chiuso i rubinetti per la squadra e ha iniziato a ideare manovre “finanziarie” per provare a frenare le perdite provocate dalla sua controllata più dispendiosa e meno redditizia. Operazioni legittime dal punto di vista economico-finanziario, ma che hanno ingenerato una serie di illusioni o, se volete, “prese in giro” nei confronti dei tifosi del Milan. I quali, nella loro maggioranza, hanno preferito prendere la scorciatoria e scagliarsi contro Galliani perchè “non sa comprare i giocatori” piuttosto che analizzare a fondo la questione.

La storia di questi quattro anni che ho brevemente raccontato ci fa pensare che le prospettive del nostro Milan nel medio-lungo periodo non siano per niente rassicuranti. Per il momento le uniche garanzie sono e restano, da una parte il presidente Berlusconi che ha a cuore il bene di questi colori e lo ha dimostrato pompando soldi a perdere per 30 anni. Dall’altra Adriano Galliani che, nella situazione paradossale dell’ultimo quadriennio, è riuscito a ritrovare un briciolo di unità e coesione interna e mettere su una squadra logica a costo zero con un bravissimo allenatore, capace di darci gioie come quella dell’altra sera.

Speriamo che questa vittoria assomigli davvero a quella di Manchester. Un mese dopo la finale di Old Trafford Ancelotti disse: “Alzando quella coppa siamo diventati più forti perchè molti campioni che abbiamo in squadra non avevano mai vinto nulla e da quella sera sono diventati consapevoli di poter vincere”. Ecco, speriamo che la vittoria di Doha, seppur meno importante della Champions, dia a questi ragazzi la consapevolezza di essere forti e poter fare davvero una carriera da campioni. E speriamo che questo effetto si possa continuare a vedere già dalle prime partite del 2017. La cosa fondamentale è rimanere uniti, nello spogliatoio e anche in società. Anche se in queste ore ho già visto che la vittoria, come spesso accade, trova padri e madri dappertutto. Anche in Cina. Buon Natale, anche se il regalo più bello di questo 2016 l’ho già ricevuto. Saluti.

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