Storia di un ex / Marco Van Basten, l’ultimo dipinto in una notte di novembre

Il 25 novembre 1992, un mercoledì, il pubblico, intirizzito dal freddo milanese, esce da San Siro scemando verso le proprie vite. Alcuni hanno la macchina poco distante, altri si imbucano in viale Caprilli per arrivare a piazzale Lotto e da qui prendere la linea rossa della metropolitana.
Chi ha il cuscino sottobraccio, chi il naso immerso nella calda lana della sciarpa, rigorosamente rossonera. Era ora di fare due passi per scaldarsi un po’, eppure il tifoso milanista al termine di quel Milan-Goteborg di Coppa Campioni, che è già divenuta Champions League e così ci si dovrà abituare a chiamarla negli anni a venire, ha la sensazione di aver già provato un brivido caldo; avverte nel petto il cuore scaldato da qualcosa o meglio qualcuno. Ci ha pensato un tale di nome Marco, Marcel all’anagrafe e secondo Federico Buffa, che ne ha dato la definizione più azzeccata, “un pittore fiammingo di nome Marcello da Utrecht”.

Pensava, quel pubblico intirizzito, di averle viste tutte: i gol a Barcellona, la prodezza agli Europei contro l’ex Unione Sovietica, le triplette e le classifiche cannonieri. Povero Goteborg: gli svedesi, loro sì che di freddo se ne intendono, hanno dovuto incassare l’impietosa sentenza: quattro reti, tutte sue; il pittore fiammingo aveva scelto il povero Ravelli, nostalgico numero uno degli ospiti, come tela e i propri piedi come tavolozza. Di rigore, di forza, di classe, Ravelli, basso e stempiato, era stato travolto dalla maestosa bellezza di quello statuario numero nove alter-ego di Johan Crujiff. Van Basten-Goteborg quattro a zero.

Marco decide, in occasione della terza rete, che l’ultimo spruzzo di colore della sua florida carriera non può essere banale. Il cross di Eranio, un po’ teso e tanto invitante per fare ciò che ha in mente, resterà memorabile quanto la sua prodezza. Perché quel traversone è il mezzo di trasporto del pallone che giunge puntuale all’appuntamento col pittore di Utrecht e con la storia. Persino la sfera stessa pare domandarsi: «Ma come vuoi colpirmi? Che vuoi farmi?». Come una bella donna sedotta piuttosto che come una vittima dinnanzi al suo aguzzino. E lui, puntando quelle gambe lunghe verso il cielo, con il collo destro spinge in rovesciata il pallone verso la porta del malcapitato di cui sopra, che prova a prendere almeno questa ma una mano sola non è sufficiente. Gol: sotto la curva, sotto il cielo scuro di San Siro, sopra il Goteborg.

Ciò che il pubblico infreddolito e scaldato da quel film da Oscar durato novanta minuti non sapeva, era che sarebbe stata l’ultima esibizione di quell’attore un po’ smemorato e facilone ma dalla classe infinita. Marco Van Basten, il numero nove che ha segnato non solo una fetta di storia milanista ma del football intero, è stata la più grandiosa espressione del talento e del “calcio totale” figlio del suo Ajax, con il quale aveva già vinto campionati e Coppe a suon di reti prima di cibarsi di risotto alla milanese e giocare a backgammon con il suo amico e compagno Ruud da Amsterdam. Da lì a pochi giorni tutto cambierà e sarà una storia senza lieto fine.

Il pubblico milanista, già meravigliosamente viziato da quattro anni di successi, non era in grado di conoscere l’amaro destino del “cigno di Utrecht”, che compie il percorso inverso trasformandosi in anatroccolo operandosi a Saint-Moritz a quella caviglia che da anni se ne sta lì appollaiata come un uccello del malaugurio. Dando così il colpo di grazia alla sua carriera e giocando la sua ultima partita, affaticato e claudicante, il ventisei maggio del ’93 a Monaco nella mesta finale contro il Marsiglia, figlia anche di quella rovesciata da antologia.

Oggi, 31 ottobre, Marco Van Basten fa 53 anni. Dobbiamo ringraziare sua madre, che un giorno del 1964, da qualche parte a Utrecht, completò anche lei il suo quadro più riuscito.
Ma nessun rancore o nuove lacrime: ci piace pensare che per gli Dei del calcio, Marco Van Basten era troppo. Manifesta superiorità, utopia che diventa regola, bellezza nel suo più ampio significato. E così il destino e la cartilagine l’hanno tolto di mezzo a ventotto anni. Ma era troppo tardi: aveva già rotto gli argini, dipinto paesaggi, cambiato la storia. E scaldato i cuori un’ultima volta quella sera di fine novembre, chiudendo il sipario ed entrando nella leggenda.

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