Ora sappiamo come misurare la vergogna

Diventa complicato anche solo capire da che parte gestire e affrontare la vergogna. Dopo l’Inter bisognava ripartire da Torino, dopo Torino non si poteva sbagliare la Fiorentina. Ora che la partita con la Fiorentina ci ha consegnato il Milan più debole e povero degli ultimi anni (già terribili per mille altri motivi), la società ha il dovere di farsi sentire nell’immediato. E non può bastare la timida conferma di Maldini. Non può, perché i tifosi del Milan non hanno più voglia di aspettare. È evidente che, in poco più di un mese, la favola del “maestro” abbia già raggiunto il suo epilogo. Soprattutto se parametrata ad una rosa che, evidentemente, già con il tanto vituperato Gattuso aveva ottenuto il suo massimo. E chissà “Ringhio” cosa penserà di questo Milan: difficilmente, per sua natura, si starà godendo il momento, anche solo per l’amore che lo lega a questi colori da vent’anni. Ma è inutile sottolineare come l’inizio disastroso di Giampaolo rivaluti immensamente quanto (quasi) ottenuto a maggio scorso.

San Siro si è schierato: fischi per Piatek, “fischissimi” per Suso, addirittura fischi per Rodriguez al momento della lettura delle formazioni (lo svizzero era in panchina). E ancora “Vergogna!” e “Andate a lavorare”, fino ai cori più tosti che solitamente sono figli di un punto di non ritorno. La protesta partita dalla Curva Sud in riferimento alla decisione della Questura di vietare l’utilizzo dei tamburi è stata, di fatto, solo il prologo di una serata agonizzante e culminata con lo svuotamento dei settori ben prima della fine della gara. Situazione che riporta indietro di qualche anno, al coreografico “Basta” dell’aprile 2015 tanto per ricordare la protesta più evocativa. Peccato che, allora, si fosse già ad aprile inoltrato. Qui nemmeno ad ottobre.

La prima giustificazione che trova Giampaolo nel blackout di ieri sta nella troppa responsabilità di doverla vincere. E ci può stare. Ma sembra che solo ora ci si accorga che la tanto osannata “età media bassissima” abbia anche più di un risvolto negativo. Il primo, ça va sans dire, quello che la maglia pesa per parecchi giocatori che hanno avuto e hanno la fortuna di indossarla. Ultima vittima Bennacer, atteso dalla prima consacrazione da regista in campo e tornato negli spogliatoi in lacrime per aver causato entrambi i rigori. E se il primo nasce da una sciagurata leggerezza di Calhanoglu, il secondo è tutto “merito” suo. E ancora: un’età media bassissima porta ad eleggere leader che non hanno le features per meritarsi medaglie del genere. Un nome su tutti: Suso, indubbiamente uno dei giocatori più discontinui e – quindi – sopravvalutati della recente storia rossonera. Un giocatore che sa piacere agli allenatori – Mihajlovic escluso -, ma che è puntuale soltanto nel non tradurre tanto edonismo in campo.

Ma quel che è peggio è che non potranno certo bastare gli allontanamenti a vario titolo di Giampaolo, Bennacer, Calhanoglu e Suso per risanare un ambiente che ha fatto del suo non essere più competitivo la normalità. Sono quasi dieci anni, sono cambiati proprietà e presidenti, allenatori e giocatori, ma la storia non ha ancora trovato la sua leva per cambiare pelle. Il Milan è un malato cronico. E chissà quanto ancora ci vorrà per trovare la luce in fondo al tunnel.

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