Storia di un ex, Luther Blissett: icona al contrario di un fragile Milan

La tragicomicità del Milan di oggi, ahinoi, si sposa alla perfezione con questo revival anni Ottanta. Le statistiche hanno detto che, peggio di questa stagione, c’è solo quella che finì con la retrocessione in B. Dalla quale gli anatroccoli rossoneri si trasformarono in meravigliosi cigni qualche anno più tardi. Ma fu un processo lento e bisognoso di tempo: nel 1983, si cercò di accelerarlo pescando in Inghilterra, la terra natia del football, un bomber di sicuro rendimento. Nella storia del mondo chi fa Luther di cognome non passa inosservato e suo malgrado nemmeno Blissett da Falmouth, Cornovaglia, riuscì a finire nel dimenticatoio. Non perché abbia segnato chissà quante reti, non perché fosse un attaccante completo, ma perché rappresentò al meglio il primo fragile Milan tornato in serie A e messo in mano a Castagner, con Baresi ancora al suo posto e un giovanissimo Filippo Galli alla sua prima stagione tra i grandi.

Luther Blisset è stato quello che Egidio Calloni aveva rappresentato negli anni Settanta e che talvolta Robinho ha rappresentato in epoca moderna. Avessero tutti e tre concretizzato una ulteriore metà delle occasioni da gol avute, staremmo certamente parlando di altri numeri e altre storie. Arrivato in pompa magna dal Watford, dove era stato capocannoniere della prima divisione, il buon Luther doveva caricarsi il Milan sulle spalle con il numero nove sulla schiena, ma furono il campionato italiano e la stampa a rastrellare lui. Gianni Brera, proprio memore dello “Sciagurato Egidio”, lo ribattezzò Callonissett. In quella stagione, naturalmente l’unica in rossonero prima di essere rispedito al mittente come un qualsiasi pacco postale, fece di tutto per farsi detestare dalla tifoseria. Non certo comportamenti antisportivi o atteggiamenti irriverenti nei confronti della gente, ma una marea di reti sbagliate, talune anche clamorose come il tiro sbilenco a porta vuota in un derby perso 2-0, lisci clamorosi e appuntamenti mancati con il pallone. Pareva aver perso ogni qualità e il furore dei giorni inglesi e pur non venendo meno la pazienza dell’allenatore e dei compagni, un mese prima del campionato Blissett si rese proprio conto che non era cosa. A fine anno furono solo cinque le marcature ma una gli valse addirittura una statua: il 2-1 inflitto al Pisa, che spedì i toscani in B, è attualmente rimasto a imperitura memoria nella città di Livorno, arcirivale dei nerazzurri, la quale per mezzo dei suoi supporters gli ha innalzato una statua.

In Inghilterra, prima nella sua ex squadra e poi al Bournemouth, il nostro riprese inspiegabilmente a segnare con regolarità. Poi, forse con qualche rimpianto per quella avventura sfortunata nel paese all’epoca campione del mondo in carica, chiuse col calcio e si diede ai motori, fondando una propria scuderia e partecipando alla ventiquattrore di Le Mans. Eppure, in campo, “Arrivava in area troppo forte, non scalava le marce”, come disse Castagner diversi anni dopo. Era il Milan di Piotti, Incocciati, Damiani, Verza, Battistini e anche di un certo Alberigo Evani.

Pensare che quella squadra post serie B iniziò da un colored numero nove che non infilava la porta neanche a spinta e che poi terminò a Tokyo, sul tetto del mondo, con un altro numero nove (credo fosse olandese, ma non ricordo il nome) a incantare le folle giapponesi sette anni più tardi, fa pensare quanta acqua sotto i ponti fosse passata.

Eppure, se vi fate scappare un “Luther Blissett” a un milanista di lunga data così come a un giovane tifoso, non avranno entrambi dubbi a riconoscere nell’immediato il presunto bombardiere nero che fu solo bombardato di fischi e improperi, ma che per quella strana alchimia che è il gioco del calcio, è restato nella collettiva memoria come se a Tokyo fosse stato lui a dare spettacolo.

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