Le parole di Nedved e la tradizione della Juve

Analizzare le parole di Pavel Nedved non è facile. Non lo è perché sono pesanti, taglienti e profonde come solo i grandi campioni sanno fare: “I giocatori nuovi non hanno capito cosa vuol dire indossare la maglia della Juve, i vecchi se lo sono dimenticato”

Vanno analizzate quindi con calma, con attenzione, lasciate sedimentare e lette sotto ogni possibile punto di vista. Insomma come si fa per le vere poesie, o come si degustano i grandi vini. Piacciono a tutti di primo acchito, specialmente ai tifosi nostalgici, che lanciati dal puro (e comprensibile) populismo gridano ai giocatori “andate a lavorare” quando vedono scarso impegno.

E hanno ragione. Ce l’hanno perche giocare nella Juve, ha da sempre significato per ogni calciatore arrivare al top della carriera, entrare nel Gota del calcio che come tale deve essere onorato. Essere chiamato in campo a difendere onore, storia e colori di questo club significa automaticamente giocare al massimo delle proprie possibilità sempre. E’ una sorta di patto non scritto quando si entra negli uffici che furono di Agnelli e Boniperti. Sia una partita siano trentotto, sia un solo minuto o siano novanta. Per decenni è stato chiaro e cristalliano. Da qualche anno non lo è più. Sembra essersi perso lo spirito, la magia di un ambiente che in tante autobiografie di ex giocatori è stata riassunta con “alla Juve si respira la voglia di vincere”, “alla Juve arrivare secondi non conta”.


E fin qui tutto bene. Ma le parole di Nedved diventano discutibili se pronunciate per  difendere la società, organismo del quale oggi il grande Pavel fa parte a tutti gli effetti. Un’analisi più riflessiva porta a sostenere questo: è  vero che spesso si è vista mancanza di impegno, altrettanto vero però che un giocatore non può superare sempre i suoi limiti tecnici. Insomma, in poche parole, un uomo non può fornire per 38 giornate prestazioni al di là della sua natura. Non è umano. Non è concepibile. Il valore medio poi alla fine viene fuori com’è naturale che sia. E il valore medio di questa squadra è decisamente basso. Può succedere allora di battere avversari blasonati, può succedere di espugnare la San Siro dei campioni d’Italia senza 9 titolari, ma non si può pretendere che un gruppo possa superare sempre se stesso.

Certo, per arrivare in Champions League non occorreva superare se stessi ma solo un po’ più impegno e attenzione, da quel punto di vista Nedved ha ragione. Ma, quello che in troppi si sono dimenticati, è che andare in Champions League non può e non deve più essere l’obiettivo della Juve. Nel dna c’è scritto vincere. Sempre. E per vincere servono grandi campioni e una gestione accurata delle risorse. Cosa che, volenti o nolenti, in questa società non si vede dai tempi di Moggi. E’ qui che non ci stiamo, la colpa non è solo dei giocatori. Come non lo è solo dell’allenatore. Da quest’idea serve ripartire e proprio per il suo background Antonio Conte è il solo uomo giusto per farlo.

Sui veterani, sotto sotto, l’attacco di Nedved è ancora più pesante. E’ un’accusa che pesa come un enorme macigno. Una dichiarazione che attesta una delusione infinita, parole che sottolineano una rassegnazione sì fisiologica dei senatori, ma non per questo comprenisbile. Come i delusi d’amore, che nei giorni immediatamente successivi alla rottura del cuore si ripromettono di non amare mai più, i campioni della Juve sembrano aver perso la capacità di tramandare lo spirito ai giocatori nuovi perché delusi dai risultati sul campo. Credo che le parole dell’ex pallone d’oro fossero riferite proprio a questa incapacità di tramandare la tradizione. Perché infondo la Juventus ha sempre vissuto di questo. Ed è sempre stato questo a fare la differenza.

Simone Eterno

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