Storia di un ex, George Weah: scarpette rosse, oro nero

Chi scrive era convinto che Weah potesse arrivare subito. Nel senso che quando nell’aprile del 1995 il Milan affronta il PSG nella semifinale di Champions League, le voci erano ormai certezze, il franco-liberiano in forza ai parigini sarebbe divenuto un giocatore del Milan. Galliani, a qualificazione ottenuta, disse “Lo chiederemo ufficialmente al Paris”. Ed ecco che allora io, nell’ingenuità dei miei dieci anni, pensavo potesse arrivare subito, indossare le scarpette e scendere in campo a Vienna nella finalissima con l’Ajax, che il Milan perse amaramente a cinque minuti dalla fine. Capii invece che bisognava attendere la stagione successiva, che le scarpette bianche di Simone erano le uniche diverse dalle altre in campo al Prater, fino a quando non si fece giugno e i due trovarono in comune, oltre che la stravaganza del ferro del mestiere, anche una profonda amicizia.

Iniziò così la parabola di George, primo pallone d’oro non europeo da quando il regolamento lo consente, sollevato proprio in quel 1995 a San Siro davanti ai suoi nuovi tifosi. Partito da una baraccopoli di Monrovia, capitale della Liberia, dove crebbe con una nonna al quale è rimasto sempre affezionato, portò una ventata nuova in serie A. Fu quello, più o meno, che rappresentò Gullit qualche anno prima: se l’olandese aveva le treccione e Weah non si distingueva per un qualsiasi particolare fisico, entrambi erano ruspanti e leggeri, parevano prendere il calcio come un vero divertimento e la labile conoscenza della lingua italiana li rendeva così impacciati e guasconi che era impossibile non far breccia nel cuore degli appassionati. George Weah non ha segnato tanto come suoi illustri predecessori con la numero nove, saranno solo 58 le reti in rossonero, ma se è vero che i gol si contano e si pesano, quelli del liberiano hanno avuto un peso specifico decisivo al fine della conquista soprattutto del quindicesimo scudetto, alla sua prima stagione italiana. La doppietta felina a Roma con i giallorossi, il gol ancora oggi inspiegabile sempre all’Olimpico con la Lazio, l’uno-due col suo amico Marco contro la Juventus, rappresentano i capitoli più belli di quel canto del cigno del Milan di Capello e forse di un intero Milan vincente, prima dell’eclissarsi di un’epoca con stagioni fuori dall’Europa e il saluto a bandiere quali Donadoni, Tassotti e Baresi.

Aveva legato con tutti George: la sua dedizione e la sua gioia bambinesca di indossare la maglia che fu di Van Basten, gli fece venire tutto naturale. Giunto in un Milan a fine ciclo al quale ha comunque scaldato il cuore, ha regalato perle anche fuori dal campo con il suo “Ciao a tutti, belli e brutti” e rappato sul palcoscenico della festa del centenario del Milan nel dicembre 1999. E’ stato accostato a Van Basten e se n’è andato a gennaio del 2000 perché “Zaccheroni non è mio amico”, frase con la quale liquidava la difficoltà di far coesistere lui insieme a Bierhoff e Boban (e sin qui tutto bene, furono il caviale del sedicesimo scudetto) e soprattutto a Shevchenko, nuovo astro nascente del calcio europeo. Appese le scarpette al chiodo si è dato alla politica, tramutando nei fatti il suo più grande desiderio di fare grande la Liberia che non era mai riuscito, da giocatore, a far qualificare a un Mondiale come aveva sempre sperato. E ce l’ha fatta, stavolta: ne è diventato presidente. Ora gli tocca l’abito scuro e la cravatta, insieme magari a un paio di mocassini. Ma a noi restano nell’anima le scarpette rosse e questo oro nero fattoci piovere da madre natura per alleviare il dolore del saluto di Van Basten, avvenuto nell’agosto di quel 1995. Quasi un passaggio di consegne. Grazie, king George.

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